LE FOTO DI IDA
NAMIBIA
2004
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Brandberg.... |
Paesaggio.... |
Moonscape.... |
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Dune... |
Sabbia e sale... |
Dead Vlei... |
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Canne d'organo... |
Spazio.... |
Fila indiana... |
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Il paese dei recinti.... |
Dune 2.... |
PENSIERI AFRICANI
Etosha
La savana polverosa
circonda il bianco abbacinante della piana salata di Etosha, arbusti sparsi,
piccoli alberi dai rami secchi e spogli qua e là. Le pozze d’acqua richiamano
gli animali assetati dalla lunga stagione senza pioggia, sono i cuori attorno a
cui pulsa la vita dell’Africa. Guardo la scena da dietro i vetri dell’autobus,
come un pesce guarda da un acquario un mondo che gli è irraggiungibile.
Cinque leoni dormono all’ombra, due maschi
e tre femmine, le sagome allungate mollemente sul terreno in un contrasto
stridente tra forza maestosa e infima pigrizia. Il loro riposo è una pausa nella
partita a scacchi della sopravvivenza,la quiete che prelude al sangue, al rosso
che tinge la terra e il cielo.
L’aria è tesa, palpo una vibrazione di
paura. Un gruppo di orici assetati muove qualche passo incerto verso l’acqua poi
arretra con scatti nervosi. L’acqua è vita allo stesso modo per la preda e per
il predatore. Alcune gazzelle dalle gambe lunghe e sottili sembrano annusare
l’aria,immobili come statue. Al centro della scena un leone dalla lunga criniera
bionda alza la testa e guarda intorno, movimenti rallentati, la consapevolezza
del forte che sfida il debole. Golia contro Davide. Apre la bocca, uno sbadiglio
di noia nel mezzogiorno assolato.
Basta uno scatto, lui lo sa, i denti
affondati nel collo, le unghie che straziano la carne. La legge della savana è
crudele e immutabile . Anche le zebre lo sanno, fiutano il pericolo, scuotono le
code freneticamente, muovono le teste emettendo un grugnito di allerta.
Il leone riabbassa la testa e scompare ai
miei occhi che continuano a fissare la scena attraverso il binocolo. Un orice si
stacca dal gruppo e si avvicina alla pozza. Le zebre non cessano di lanciare il
loro grido. La scena si azzera, l’orice torna sui suoi passi, in un braccio di
ferro tra sete e paura, sapendo che comunque in fondo la savana non lascia
scampo ai deboli.
E’ duro capire, rinunciare alla pietà per
me che guardo da dentro l’acquario, è duro rimanere imparziali davanti alla
crudezza di questo duello antico come il mondo. Non c’è ancora il sangue sulla
scena , ma l’animo è sconvolto dalla tensione e dalla ineluttabilità dei
destini.
All’improvviso, a pochi metri da me, la
sagoma di un leone bello e giovane si alza dal suolo, le sue gambe si distendono
mentre allunga il collo, una nobiltà affascinante nei suoi gesti svogliati. Ecco
che i suoi piedi silenziosi entrano in scena. Anche gli uccelli hanno fermato a
mezz’aria il battito delle ali. Passo dopo passo percorre la breve distanza che
lo separa dal margine della pozza e non c’è fretta nell’andare, non c’è nessuna
esitazione nei suoi gesti di padrone.
Tutti sono arretrati, hanno lasciato la
ribalta, il riflettore illumina la bionda criniera e il muso che lambisce
l’acqua. Il grande corpo è disteso, la testa sporge verso la pozza da cui la
lingua raccoglie il liquido prezioso. Non c’è circospezione, non c’è tensione
negli occhi e nelle gambe del leone. Gli orici, le gazzelle,le zebre, gli
uccelli, io pesce nell’acquario, guardiamo da lontano la fine dell’azione, il
leone a testa bassa si allontana e si rimette all’ombra ad oziare, indolente,
quasi magnanimo nelle sue fattezze di grosso gatto.
Per un attimo ho immaginato un altro
epilogo. Come capita a volte nel nostro mondo di umani, ho pensato alla
rivincita dei deboli dopo millenni di massacri. Ho immaginato di vedere un
rivolo di sangue scuro disegnare la polvere : il sangue del padrone abbattuto,
il debole che infrange impudentemente la legge che regola la sua stessa
esistenza.
Il sogno è durato un batter d’occhio. Tutto
ha ripreso il suo posto nella calura polverosa della savana. I leoni
sonnecchiano, gli orici,le zebre, le gazzelle si abbeverano frettolosamente con
le orecchie sempre tese e le narici vibranti. Anche noi umani ce ne andiamo
dentro il nostro acquario, portandoci dietro qualche goffa fotografia e la pelle
fremente di emozione.
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Torta di mele
Solitaire non potrebbe essere nome più
appropriato per questo luogo, tre case ed una pompa di benzina in mezzo al
nulla. Eppure in qualche modo ci si arriva in molti, come se tutte le strade
della Namibia convergessero qui. Vi arrivano viaggiatori con l’anima già
impregnata di Africa, con sandali impolverati e la grazia discreta di chi
conosce i luoghi. Vi arrivano i torpedoni del tutto compreso alla ricerca
dell’ultimo angolo selvaggio da rubare e portare a casa.
Dietro il bancone di legno del bazar c’è
una donna anziana di fattezze nordiche, figlia, forse addirittura nipote di
coloni tedeschi. Mi fa l’effetto di un personaggio di una fiaba mentre taglia la
torta di mele che da anni viene sfornata con la sacra immutabilità di una
leggenda.
Mi siedo ad un tavolino a bere il caffè e
mangiare la torta e mentre guardo il viavai incessante di persone di passaggio
ho la sensazione di avere smarrito la strada per tornare indietro.
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L’acquario
A Windhoek ci sono casette ordinate e
leziose come nella campagna bavarese. C’è Katatura, la baraccopoli dei neri,il “
luogo dove non si abita per sempre “, e tutto convive in un’apparente quieta
armonia. A quanto si dice qui, la Namibia pare essere il paradiso dell’Africa
per il suo stato politico di stabilità ed emancipazione delle genti native.
Proprio nella piazzetta sotto il faro di
Swakopmund, davanti alla residenza estiva del presidente molti uomini dalla
pelle scura dispongono la merce per i turisti. Dita affusolate come i loro corpi
magri creano file ordinate di animali di legno, gioielli dalle mille forme,
statue lucide di guerrieri.
Sul prato proprio sotto di me vedo altri
uomini poveri allungati sull’erba, gente che sbarca il lunario vendendo gingilli
da poco e poi bevendosi subito le monete guadagnate. Gente sbandata che dorme
all’aperto in compagnia di una birra. Sono tutti così i poveri del mondo che noi
uomini bianchi e ricchi abbiamo contribuito a creare. Anche nel paradiso
d’Africa.
Sono seduta dietro il vetro di una
caffetteria tedesca che domina la piazza, l’acquario che mi protegge dalla
realtà. Da qui posso non accorgermi degli occhi profondi dei poveri diavoli
distesi al sole, uno su quattro ha l’Aids e non lo sa e la malattia continua a
diffondersi tra la gente. Anche nel paradiso d’Africa.
Cosa potrei fare io per loro?- mi chiedo,
mentre mangio una fetta di torta ai mirtilli e vedo i miei occhi riflessi dal
vetro dell’acquario che mi protegge dalla mia coscienza.
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Lo spazio.
Un cerchio perfetto e noi al centro. Un
orizzonte di 360 gradi che delimita lo spazio in cui il respiro si libera e si
espande. I ricordi più intensi dei miei viaggi sono proprio questi: spazi
immensi oltre cui la mente malinconica può spingersi ad immaginare.
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Il deserto
Bisognerebbe piantare una tenda e
svegliarsi qui ogni mattina, arrampicarsi su una duna e guardare lontano,
accarezzare con gli occhi le sue onde che si modellano nel vento. Deserto
antichissimo, anomalo per la ricchezza di vita legata all’umidità che proviene
dall’oceano. E’ il rosso il colore che domina e potendosi alzare in volo si
vedrebbero i profili morbidi delle dune che sfumano fino a toccare il blu cupo
delle onde dell’Atlantico.
Bisognerebbe rimanere qui per un ciclo di
stagioni per ammirare il miracolo della vita che ricompare dopo le piogge,
fiori, foglioline verdi, insetti,piccoli rettili. Tutto ciò che nascosto,
sopito,diventa freneticamente vivo al tocco delle prime gocce.
Il deserto del Namib ci rapirebbe, ci
spoglierebbe dei nostri carichi per riportarci alla essenzialità del rapporto
tra uomo e natura. Allora faremmo fatica a tornare indietro nel nostro mondo
manipolato e ridondante. Ci prenderebbe la nostalgia per il silenzio e per lo
spazio perfetto dentro cui finalmente sentiamo rimbombare i nostri pensieri di
uomini.
Tornerò a casa e ripenserò agli alberi di
Dead Vlei, morti da 2000 anni, i loro scheletri anneriti protesi verso il cielo.
Mi sentirò ancora più inadeguata per ciò
che ho fatto, per la caducità di quello che lascerò di me al futuro.
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L’oceano
Due giorni fa hanno ucciso una donna sulla
spiaggia. Una donna bianca che ha resistito ad una rapina. Le hanno sparato nel
petto. Ho fatto fatica a convincermene leggendo la notizia sul giornale perché
quando sono uscita con Laura al mattino presto per passeggiare sulla riva ho
avuto l’impressione di una scena quieta e perfetta. Non una goccia di sangue a
tingere la sabbia, non lo strazio di un grido a disturbare il rumore del mare.
Ci siamo ritrovate in tre sulla spiaggia di
Swakopmund, Patrizia ci è venuta incontro con i suoi passi calmi, le mani
affondate nelle tasche. Abbiamo camminato insieme mentre il sole si alzava
veloce, non sapendo ancora che solo due giorni prima una vita era stata
interrotta con violenza nello stesso punto dove noi abbiamo sostato per
riempirci i polmoni di aria fresca.
Senza la protezione del vetro dell’acquario
l’Africa ha ripreso il suo vero volto, un paese povero e violento, uno schiaffo
che stordisce solo per un attimo noi viaggiatori di passaggio.
Ida.....Namibia Agosto 2004
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